*dramatic music crescendo*

La creazione è un atto di assoluta volontà.

John Hammond

Nel 1990, Michael Chricton pubblicò “Jurassic Park”.

Nel 1993 avevo quattro anni e, grazie al film, uscii dalla mia ossessione di allora: la fiaba dei Tre Porcellini.
Non so perché quella storia, insieme a Bambi, mi ossessionasse così tanto, non lo sa neanche mia madre che non la tollerava più, ma l’impatto di Jurassic Park su di me fu immenso – e non solo per la scrittura.

Di quella giornata ricordo pochi dettagli: abitavo ancora a Bologna; con me al cinema c’era Luca, il figlio di alcuni amici di mia madre che ha un anno più di me, i suoi genitori e mia madre; il cinema era piccolo, nascosto tra le vie strette del centro, le sedute erano lunghe panche di legno con la seduta ribaltabile, scomode come la morte, e lo schermo era incastonato tra due ali di pesanti tendaggi in velluto rosso cupo dal cordame dorato.

Non so se fosse la mia prima volta al cinema, ma è il primo ricordo che ho del grande schermo.

La visione dello scavo del professor Grant mi rimase nel cuore.

L’ho trasformata in realtà, ed è ancora più bella di quanto mai avessi immaginato: la terra che s’incolla alla pelle e si mescola al sudore; il sole a picco che brucia la schiena mentre, china sul suolo, svelo pian piano ciò che il passato ha sepolto; il senso di appartenenza e cameratismo coi compagni di missione; il silenzio delle pause pranzo passate a pisolare nell’erba; il profumo dell’argilla umida; la mente che decifra i segni del passato nel terreno e ricostruisce una narrazione.

Tutto questo è il mio primo, grande Amore, e lo sarà per sempre.

È vero, il professor Grant era un paleontologo, e io ho scelto la via dell’archeologia, ma quel bisogno di scoperta, di esplorazione, di conoscenza per ciò che c’era prima e ci ha portati qui, all’oggi, è il medesimo.

Con la differenza che, ammettiamolo, i dinosauri sono molto più fighi di tutto il resto.

L’idea romantica della paleontologia, comunque, è evaporata grazie a un dottorando impegnato a studiare batteri fossili, molto meno fighi dei dinosauri, che sono certa riderebbe un sacco se potesse ancora leggere queste parole.

Ci fu un’altra cosa che mi rimase impressa nella scena dello scavo del dottor Alan Grant: il modo in cui risponde al bambino che commenta deluso il velociraptor.
Lo ricorderete tutti, quel momento iconico: Alan estrae l’artiglio dalla tasca – vi assicuro, sì, a volte ci si tiene piccoli souvenir di scarsa, se non nulla, valenza scientifica – e si acquatta: “Non si disturba a mordervi la giugulare come farebbe un leone. No. Lui vi sciabola qui. O qui. O magari qui, in mezzo alla pancia, facendo fuoriuscire le budella”, passa l’artiglio sul ventre del bamboccio e continua: “Il guaio è che siete ancora vivi quando cominciano a mangiarvi. Be’, adesso che lo sai, cerca di avere un po’ più di rispetto, mh?”

L’idea mi dava i brividi, ma con poche parole Alan Grant aveva ritratto un quadro.
Era quella la potenza di una storia raccontata bene: il Velociraptor era in scena ancor prima di apparire, col suo lungo artiglio; la passeggiata ondeggiante col collo che fa avanti e indietro; gli occhi rapaci, freddi e calcolatori.

Quando finalmente giungono su Isla Nublar, la meraviglia.
I dinosauri erano giganteschi, meravigliosi e, soprattutto, vivi. Sapevo che erano finti, qualcuno si era già occupato di smontare l’idea potessero essere animali veri, ma erano così reali che potevo comunque coltivare l’illusione che lo fossero.

Ma non lo era forse anche il Raptor che nell’immaginario di Alan sventrava quel bambino cocciuto?

Certo, lo era, ma per essere vivo aveva bisogno di essere raccontato con le giuste parole.

Questo, ovviamente, non fu l’inizio vero e proprio della scrittura.
Avevo quattro anni, non sapevo nemmeno tenere in mano una penna, ma quando mi sono chiesta: “da dove è partito tutto questo mio amore per le storie?”, la risposta è stata questa.

Dai Dinosauri, da Alan Grant e dal Velociraptor.

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