Un dark fantasy mitologico, sporco e viscerale, dove gli dèi nascono dalla fede e muoiono per mano di chi non può più credere in niente.

A volte succede che un libro si faccia spazio dentro senza chiedere permesso. Ti trascina, ti strattona e finisce col riscrivere i parametri su cosa debba essere un fantasy.
Godkiller di Hannah Kaner non è solo un buon esordio. È, senza mezzi termini, la miglior serie fantasy che io abbia letto negli ultimi dieci anni.
Ha una protagonista disabile che non chiede pietà, ma rispetto. Un mondo che brucia di mitologia viva e famelica. Una scrittura essenziale, che non si perde nei fronzoli e arriva dritta allo stomaco.
E la mia descrizione è riduttiva, in confronto a ciò che il libro riesce a fare davvero.
La trama (senza spoiler)
Nel regno di Middren, gli dèi sono creature vere. Nascono dalla fede, si nutrono di preghiere, mutano forma e potere secondo ciò che i loro fedeli credono. Un tempo dominavano ogni cosa, ma dopo una guerra brutale, il Re ne ha proibito il culto e le divinità sono diventate fuorilegge.
Kissen è una godkiller. Mercenaria mutilata da un dio quando era solo una bambina, con una gamba artificiale e una rabbia che non ha bisogno di parole. Il suo mestiere è semplice: uccidere dèi, senza alcuna pietà. Eppure, quando una bambina di nome Inara le si avvicina — con un dio minuscolo legato al cuore — Kissen si ritrova davanti a una scelta che non avrebbe mai voluto affrontare: aiutarla a sciogliere il legame col dio, senza ucciderlo, o abbandonarla al suo destino di orfana?
Le due, si mettono in viaggio verso la città perduta di Blenraden, alla ricerca di una soluzione e a loro si unisce Elogast, un ex-paladino diventato panettiere, che ha giurato di non combattere mai più. Il richiamo del Re, però, lo costringe a infrangere il suo giuramento.
Nel viaggio, quello che ognuno di loro porta dentro – tra rimorso, vendetta, e amore negato – diventerà molto più pericoloso delle divinità stesse.
Cosa mi è piaciuto
KISSEN, PRIMA DI TUTTO.
Una protagonista fuori dagli schemi che non chiede di essere salvata, né idolatrata. È amputata, arrabbiata, introversa fino al midollo e capace di gesti profondamente umani. È una sopravvissuta, ma non è definita dal trauma.
Ha una maschera ruvida e tagliente, eppure nella sua irritabilità, nei suoi silenzi e nei piccoli gesti di cura che rivolge sia a Inara che a Elogast, si intravede una complessità che raramente ho trovato nel panorama dei personaggi fantasy. Non si lascia andare facilmente, nemmeno con le due coinquiline che sono la sua famiglia — e anche questo è trattato con autenticità, non come cliché. Ho empatizzato molto con lei e anche la mia migliore amica, leggendo, continuava a ripetermi: “Questa sei tu”.
ELOGAST: IL PALADINO CHE AVREI SEMPRE VOLUTO LEGGERE
Non è il cavaliere brillante, senza macchia e senza paura: è un uomo ferito, che cerca pace nella farina e nel calore di un forno, che deve combattere con le allucinazioni di un PTSD dovuto alla guerra in cui ha combattuto. È straordinariamente, profondamente umano.
È leale, ma non cieco, e la sua fedeltà vacilla più volte, per motivi molto umani e credibili.
Perché anche i buoni hanno paura, anche i buoni fanno scelte sbagliate.
INARA: L’UNICA BAMBINA CHE ABBIA MAI APPREZZATO
È uno dei rarissimi personaggi giovani che non mi ha fatto alzare gli occhi al cielo. È una bambina, sì, ma non è solo il personaggio infantile. Ha i suoi momenti “da bambina”, com’è giusto che sia, ma è anche costretta a crescere, a scegliere, a portare su di sé un peso che non dovrebbe appartenere a nessun cuore così piccolo. E lo fa in modo coerente, mai forzato.
UN WORLDBUILDING GENIALE
Gli dèi nascono da ciò in cui crediamo, mutano a seconda dei racconti, delle paure, delle speranze. È una mitologia mobile, viva, radicata nelle emozioni umane. In molti tratti, mi ha ricordato il concetto degli Spiriti del gioco di ruolo World of Darkness.
LA SOCIETà (NON ADATTATA PER COMODO MARKETING)
Infine c’è l’elemento queer, trattato non come etichetta da esposizione ma come parte organica del mondo: esiste ed è normale, punto. Allo stesso modo, esistono personaggi con disabilità. Anche questo elemento non è inserito per pietismo o per marketing, è un ritratto della società di Middren, ha impatto sulla trama, e la scelta di inserire personaggi disabili all’interno di un’ambientazione fantasy – personaggi costretti ad affrontare realisticamente le difficoltà che la loro disabilità impone loro, non che la ignorano anche se su carta ci sarebbe – è coraggiosa, rischiosa, ma anche perfettamente riuscita.
È un’ambientazione in cui esistono ruoli fluidi, relazioni complesse, identità rispettate. Ed è bellissimo.
Cosa funziona (e perché)
- I combattimenti: sono chiari, tesi, realistici. Non c’è spettacolo fine a se stesso: ogni colpo, ogni movimento ha un peso, una conseguenza. L’impatto della disabilità di Kissen non è estetico né pietistico, ma reale e narrativamente rilevante.
- La gestione dei POV: Hannah Kaner sa usare la focalizzazione multipla senza creare confusione. Ogni voce è distinta, ogni personaggio ha un suo ritmo interiore.
- Il ritmo narrativo: alterna momenti d’azione a pause emotive ben distribuite. La tensione non viene mai spenta, ma modulata.
- La costruzione delle relazioni: affetti che nascono nella fatica, non in frasi melense. Le connessioni sono sporche, imperfette, vere. E ti entrano dentro.
Cosa non funziona
La mia unica, vera perplessità riguarda la traduzione italiana.
La prosa originale è asciutta, tagliente, scabra: perfettamente aderente a un mondo fatto di sangue, violenza e fuoco.
La versione italiana, invece, è troppo letteraria, come se cercasse di “abbellire” qualcosa che non ha bisogno di orpelli, col risultato che tantissime frasi suonano più liriche di quanto l’autrice intendesse, e questo stona orribilmente. Leggendo il volume in italiano, mi sono accorta che la scelta di certe frasi, di certe parole, strideva con il tipo di ambientazione o di scena in atto, e per curiosità ho fatto il confronto con la versione inglese.
Inutile dirvi che ci sono frasi estremamente asciutte (4 o 5 parole), che in italiano sono state inspiegabilmente espanse in interi paragrafi.
Mi preoccupa sinceramente l’adattamento dei volumi successivi, dove i toni si fanno ancora più crudi. Scegliere il linguaggio sbagliato rischia di affossare una serie fantasy bella come non se ne vedevano da anni.
Perché vale la pena leggerlo
Perché è un fantasy che osa.
Perché è scritto da una voce nuova e potente.
Perché ti mette davanti a personaggi che non sono perfetti, ma sono veri.
Perché parla di fede, di lutto, di rabbia e di amore, senza mai scadere nel melodramma.
Perché, semplicemente, è diverso da tutto il resto.
Se ti piacciono i fantasy mitologici, cupi, con protagonisti ai margini e una mitologia reinventata, allora Godkiller è il titolo che stavi aspettando.
Conclusione
Godkiller è un viaggio.
Non quello degli eroi, ma degli esseri umani.
È fango, fuoco, ossa rotte e legami che si formano a dispetto di tutto.
È la storia di chi ha perso tutto, ma decide comunque di andare avanti.
È feroce, intimo, malinconico.
E lascia un segno.
Se hai ancora spazio sul comodino (e anche se non ce l’hai), leggilo.

Lascia un commento